C’è una cosa che ha fatto sfuggire Death Stranding a tutte le etichette possibili e immaginabili: il ruolo riservato al combattimento nell’economia del gioco. In un viaggio che si basa proprio su questo — il viaggio — e non sul percorrere una distanza per arrivare al prossimo nemico da uccidere, si è generato un cortocircuito concettuale, legato al fatto che, fin dall’alba del medium, il videogiocatore identifica un nemico da sconfiggere e parte per riuscirci.

Si tratta anche di una delle basi dello storytelling: affinché ci sia una storia, è necessario che ci sia un conflitto da risolvere. In Death Stranding il conflitto c’è e, sebbene qualcuno potrebbe pensare sia meramente quello che intercorre con gli Homo Demens o magari quello che si genera con le scorribande nell’Ade di Clifford, a una più attenta analisi emerge che il conflitto è quello nel piano tra vivi e morti. Una cosa un po’ troppo sofisticata per potere essere risolta a colpi di mitra.

Così, prendendo come esempio proprio degli open world, Aloy deve stare attenta ai nemici e può brandire il suo arco — e le altre armi — per scoprirne i punti deboli e abbatterne. Geralt, di mestiere, fa l’ammazza-mostri, e in The Witcher 3 è meraviglioso, essere un ammazza-mostri. Venom Snake, neanche a dirlo, è un veterano (o presunto tale) che potrebbe uccidere un uomo utilizzando solo il pollice e l’indice. Sam Porter Bridges, invece, a uccidere non è per niente bravo. Io sono un corriere. Faccio consegne. E così, il combattimento duro e puro in Death Stranding si trova costretto ad assolvere la funzione di comprimario, anziché di pietra angolare.

E’ un approccio che ha lasciato davvero stupidi, per un AAA open world — ancora di più, se davvero qualcuno si aspettava che questo gioco potesse essere Metal Gear Solid con un postino al posto di Snake. Invece, Death Stranding somiglia solo, fieramente, testardamente e fortunatamente a Death Stranding.

Le boss fight, che si possono ripetere praticamente identiche a sé stesse ogni volta che si viene beccati da una CA, non diventano così una sfida, ma una possibilità di scelta. Se non vuoi procedere furtivo, fatti beccare: sfida il boss e libererai l’area per qualche minuto. Smaltito il breve confronto, si torna all’esplorazione, alla costruzione, alla scoperta, ai carichi, le consegne, i prepper, la collaborazione, al mondo di Death Stranding, dove prevalere è solo una parentesi e oltretutto non è mai un prevalere su altre persone reali — come va tanto di moda nei videogiochi. In Death Stranding ogni prevalere è sulla morte come essenza stessa. Su quello che minaccia la sopravvivenza degli esseri umani. Le persone reali devono collaborare, perché sono vive. E i vivi cercano in tutti i modi di sottrarsi alla morte. E collaborano per farlo.

Il ruolo di spalla che Death Stranding dà al combattimento è esplicato in modo simbolico e ancora più chiaro dalle armi messe a disposizione del giocatore. Dopo tante, tante ore, il titolo consente di imbracciare delle armi da fuoco ma, se dovessero venire utilizzate, riempiremmo il mondo di ulteriori CA. Per evitarlo, bisognerebbe caricarsi il cadavere del malcapitato e portarlo fino al più vicino inceneritore, evitando di creare ulteriori pericoli per i vivi. Un modo semplice e spietato di convincere il giocatore a non uccidere nessuno, nemmeno i MULI che ti stanno per derubare, perché non vuoi che il mondo subisca le conseguenze di quello che stai facendo.

Le armi che userete più spesso, invece, sono quelle caricate con il sangue di Sam. Sono i proiettili speciali che consentono di respingere le CA — la morte sotto forma di anime antropomorfe, appunto — e che consentono di respingere anche Cliff. Armi che sparano addosso agli altri il sangue del nostro personaggio, svuotandociArmi che, mentre vengono usate, scaricano la barra vita di chi spara, uccidendolo, anziché assassinare chi viene colpito. Le CA vengono liberate dai nostri colpi di sangue. Clifford viene respinto. Sam viene ucciso, perché continuare a sparare lo prosciuga, lo costringe a ricorrere alle sacche di sangue, lo spinge verso l’anemia.

Sparare, in Death Stranding, può uccidere il mondo di gioco (con i proiettili letali e la necrosi dei cadaveri che scatena le CA) o può uccidere Sam. Un modo simbolico e azzeccato di urlare in faccia al giocatore che uccidere ha sempre delle conseguenze. Ed è proprio perché gli esseri umani hanno preso cose come questa alla leggera, ci racconta il gioco, che il mondo è diventato quello che è diventato.