Sentiamo spesso parlare, in tema videoludico, di dissonanza ludonarrativa. Sembrerebbe un’espressione complicata e indecifrabile, ma in realtà indica qualcosa di più comune di quanto si potrebbe pensare: il fenomeno per il quale quanto racconta la storia di un videogioco e quanto vediamo, invece, nelle sue meccaniche di gameplay, non coincidono.
L’industria dei videogiochi è piena di esempi più o meno palesi di dissonanza ludonarrativa, mentre ci sono dei casi in cui, con un contesto narrativo ingegnoso, è possibile proporre sia il gameplay che si voleva, sia il tipo di temi narrativi progettati fin dall’inizio.
Esempi di dissonanza ludonarrativa
Un esempio molto recente e particolarmente clamoroso di dissonanza ludonarrativa, per ammissione della sua stessa scrittrice, è quello del reboot di Tomb Raider, del 2013.
Il gioco ci presenta una giovane Lara Croft, che ha appena finito i suoi studi, alle prese con una spedizione all’isola di Yamatai, dove la ragazza si trova da sola, dopo un naufragio, alle prese con persone ostili e nel tentativo disperato di riunirsi ai suoi compagni di spedizione. In una colluttazione dal retrogusto quasi tragico, in cui c’è la famosa sequenza del quasi-stupro di Lara, la ragazza la fine si difende da un aggressore, finendo con l’ucciderlo.
Si tratta del primo omicidio di Lara Croft, che ci viene mostrata devastata dall’accaduto — ovviamente e umanamente traumatizzata. Si tratta di una precisa scelta narrativa: Lara non diventerà la tomb raider semplicemente schioccando le dita e deve affrontare difficoltà e traumi, per trasformarsi nell’eroina che tutti abbiamo imparato a conoscere.
Peccato che il gameplay la smentisca in toto: dopo che vengono sbloccate le armi da fuoco e, di conseguenza, Lara ha imparato come si uccide, il gioco si trasforma in una sorta di Rambo al femminile, con la futura archeologa leggendaria capace di uccidere decine e decine di persone senza più preoccuparsene troppo. Questo, a ridosso del primo traumatico omicidio.
Si tratta di una dissonanza ludonarrativa grande come una casa. Ma non è l’unico esempio: voglio citarvi anche i casi di Naughty Dog, perché sono quelli di cui gli autori hanno accettato di parlare.
Nathan Drake, il protagonista di Uncharted, è un uomo gradevole e piacevole. Ma, per necessità di gameplay, nelle sue spedizioni e avventure si trasforma anche in un uomo capace di ammazzare qualsiasi oppositore gli si faccia di fronte. Il che, però, stride fortemente con la sua caratterizzazione, per ammissione di Bruce Straley stesso, direttore della serie con Neil Druckmann. Ecco perché, nel caso di The Last of Us, il team statunitense ha pensato di costruire un nuovo contesto — quello del mondo decaduto in cui qualcuno potrebbe ammazzarti per un po’ d’acqua potabile — in cui è molto più credibile che le persone siano pratiche nell’assassinarsi l’un l’altra, e non hanno paura di sporcarsi le mani. Ma pensiamo anche a The Last of Us – Part II, la cui intera premessa è basata sul costruire il contesto per cui Ellie commetterà gli orrori che commetterà: la vendetta.
Ci sono anche esponenti estremamente illustri della dissonanza ludonarrativa. Al di là del fatto che l’esempio di Tomb Raider potrebbe applicarsi a moltissimi giochi basati sulle sparatorie, con i protagonisti che sono persone “ok” che hanno alle spalle centinaia di omicidi, credo sia doveroso, da me, aspettarsi un esempio dalla saga Metal Gear. Ebbene, pensate al primo Metal Gear Solid (ma anche al quarto, se volete): fin dall’inizio, Liquid sa che non avrà più il codice del direttore della DARPA, quindi vuole che Snake inserisca la chiave PAL per attivare il lancio. Nel frattempo, però, Snake se la deve vedere con l’elite di Fox-Hound e buona parte di Next-Generation, per pure necessità di gameplay.
Di contro, assassinare persone in un videogioco come Hitman è perfettamente affine alla caratterizzazione del personaggio, che è un sicario su commissione. Così come è normale che Geralt sbricioli mostri e, ahilui, prepotenti che provano a prevaricarlo: è un witcher che vaga per il mondo proprio a caccia di mostri che minacciano gli esseri umani.
Sono esempi che vengono così, schioccando semplicemente le dita, ma che danno un po’ l’idea di cosa si intenda per dissonanza ludonarrativa.
Le difficoltà dei game designer
L’argomento è tornato alla ribalta in questi giorni, quando su SpazioGames vi ho proposte le parole di Bruce Straley in merito a questo fenomeno nel game design.
Proprio Straley ha riferito in modo molto interessante quanto questo rappresenti uno scoglio, nel momento della progettazione dei videogiochi: è sempre importante trovare degli ostacoli da far affrontare al giocatore (sappiamo infattiche giocare è lo “sforzo volontario di superare ostacoli non necessari”, come ci insegna Suits, ndr), ma la magia deve compiersi nel riuscire a incastrarli alla scrittura — quando si realizza un videogioco storydriven.
Per questo, Straley è arrivato a interrogarsi sulla possibilità di realizzare videogiochi dove, semplicemente, non si spari, considerando che spesso è proprio il modo scelto per portare avanti il conflitto (come notate anche dagli esempi fatti) a scatenare la dissonanza ludonarrativa. Il fatto che siamo tutti assassini digitali da qualche decennio (più o meno dai tempi di Space Invaders) sarà oggetto di un altro approfondimento: la parte molto rilevante sulla dissonanza ludonarrativa, nel discorso di Straley, è quella in cui l’ex Naughty Dog sottolinea quanto per lui fosse importante trovare il giusto incastro tra gameplay e narrativa, da cui è nato il contesto dietro a The Last of Us — appena eletto da PlayStation Blog come gioco del decennio, per capirci.
Non sempre, infatti, le cose vanno così: quando i designer e i narratori di un gioco sono le stesse persone, trovare una soluzione può magari essere più facile. Ma cosa succede quando il team di designer e il team degli scrittori non coincidono? Lo ha raccontato Rhianna Pratchett.
Le difficoltà degli scrittori
Manco a dirlo, vi parlai dell’argomento anni fa su SpazioGames, riportando una interessantissima intervista alla scrittrice di Tomb Raider e Rise of the Tomb Raider.
Pratchett spiegò di essere consapevole della fortissima dissonanza ludonarrativa del primo gioco, che fu frutto del tentativo di trovare un compromesso tra le meccaniche su cui si voleva puntare e la storia delle origini di Lara di cui si aveva bisogno. Come dichiarato da lei:
Dal punto di vista narrativo, sarebbe servita un’escalation più lenta. Ma i playtester hanno fatto capire che, se dai un’arma al giocatore, allora la vuole usare. Il gameplay voleva rendere le cose divertenti, supportare i desideri del giocatore.
Si è così deciso, semplicemente, di puntare tutto sul gameplay. Il che è ovviamente sensato, se non fosse che hai assunto una vera scrittrice, con tutto un team, promettendo ai fan di raccontare le origini della giovane Lara Croft. Il fatto che non si sia cercato più di tanto un equilibrio tra narrativa e meccaniche, spiega Pratchett, è tutt’altro che una meccanica poco comune, nell’industria:
Le cose non sono andate nella direzione della narrativa. Effettivamente, non molte di queste battaglie lo fanno. A volte vinci, altre volte perdi. Devi abituarti al fatto che perderai più spesso di quanto tu non vinca.
Ecco perché cercare di lavorare per affinare il problema della dissonanza, soprattutto in un mondo videoludico dove spesso si ricorre alla certezza del conflitto armato, per proporre ostacoli da superare e un modo per affrontarli, diventa più facile quando narratori e designer sono le stesse persone.
Nella sua intervista, Pratchett spiegò che, ovviamente, in un team come quello di Crystal Dynamics che realizzò Tomb Raider, gli scrittori erano un piccolo ingranaggio in una macchina più grande:
Quando si parla di team con centinaia di persone, sei veramente un ingranaggio nella macchina. Il team narrativo è importante, ma lo sono anche gli altri, e ciascuno lotta per avere il suo spazio, il suo budget, tutto quanto.
I videogiochi story-driven
Rispetto ai tempi del primo Uncharted, ma anche del reboot di Tomb Raider, oggi ci sono giochi che sono tanto story-driven da non avere paura di dare priorità alla storia e al coinvolgimento, che non alla frenesia che il gameplay vorrebbe imporre.
Nella stessa intervista linkata, Straley ha spiegato che anni fa si cercava anche di far iniziare le cose in medias res, per consentire al giocatore di avere subito una fase di azione che potesse catturarlo. Se ci pensate, è lo stesso meccanismo che si usa nei video virali pubblicitari: i maestri vi insegneranno che, se i primi 5 secondi di video non attirano l’attenzione, l’utente scrollerà e non lo vedrà mai. Nei videogiochi si ragionava allo stesso modo: se non c’è qualcosa di interessante da fare nei primi minuti, il giocatore non sarà catturato.
Oggi, per fortuna, c’è una visione più matura: se non c’è qualcosa di interessante da scoprire, da cui lasciarsi coinvolgere, il giocatore non sarà catturato. Ma qualcosa di interessante da scoprire non deve necessariamente essere la prima smitragliata da affrontare: può essere il mondo meraviglioso e terrificante delle creature arenate di Death Stranding, il silenzio dei boschi del Wyoming in Firewatch, la ricerca dell’ispirazione dalla propria voce interiore di The Novelist, l’originalità assoluta dell’approccio investigativo di Her Story.
Il videogioco matura un piccolo passo alla volta, e lo fa accettando che dare un’esperienza narrativa di peso, attraverso l’unicità dell’interazione, è un più, e non un onere. Nessun altro medium può raccontare le storie come può farlo il videogioco. E se questo a volte diventa un peso, perché per scrivere determinati personaggi evitando la dissonanza ludonarrativa dovrei evitare anche determinati tipi di meccaniche, è anche vero che può diventare un grande pregio.
Con tutti i videogiochi che sono nelle proprie corde ci si diverte. Ma con quelli che sono raccontati al meglio delle proprie possibilità, si fa di più — ti si insinuano dentro e ci rimangono. Una cosa che anche l’industria sembra aver capito, rispetto ad anni fa, dando maggior spazio creativo agli autori: basti pensare anche all’inizio di Red Dead Redemption 2, che si prende tutto il tempo del mondo per farvi scoprire il suo Selvaggio West.
La dissonanza ludonarrativa è un rischio in cui incappano le software house che vogliono caratterizzare i loro personaggi e le vicende che li coinvolgono. Va anche detto che, qualora ci si incappasse, non compromette tutto quello che stiamo vivendo: si possono provare emozioni interessanti in Tomb Raider pur nella sospensione dell’incredulità suscitata dalla Lara improvvisa assassina.
E’ interessante che gli autori di videogiochi tengano conto di questo aspetto, nella creazione delle loro opere, perché è ulteriore sinonimo di maturazione. Ai tempi di Tomb Raider, si è scelto deliberatamente di mettere due parti del gioco in netto contrasto. Oggi, si sta più attenti a questi aspetti, perché si è capito che il videogiocatore non è solo uno che vuole smitragliare contro qualsiasi cosa gli si faccia davanti. Che è interessato a titoli che hanno da proporre una storia che, insieme alle meccaniche di gameplay, mi faccia continuare a giocare. Il tempo di Pong non c’è più e oggi il mercato propone titoli diversi a chi cerca cosa diverse. Tra queste, ci sono anche i giochi fortemente story-driven, quelli che hanno l’onere e l’onore di puntare sulle storie da giocare e personaggi che vivono di per sé, e che possiamo seguire nelle loro avventure. E che, possibilmente, non dimenticheremo più.