Metal Gear Solid è sempre stato, fin dal suo esordio in tre dimensioni, una serie da PEGI 18. Oltre alle tematiche importanti e a sporadiche scelte di linguaggio scurrile o di doppi sensi sessuali, la saga firmata da Hideo Kojima è caratterizzata da un elemento che è, insieme alla tematica della deterrenza nucleare, al centro nevralgico della sua struttura scrittoria: la violenza.
Non voglio parlare, in questo articolo, del significato che le viene attribuito, potrebbe essere oggetto di un’altra disamina. Voglio invece notare in che modo quest’ultima sia evoluta con il passare degli episodi, passando da determinate scelte ai tempi di Shadow Moses ad altre estremamente diverse ai tempi di Metal Gear Solid V.
Per farlo, ho pensato di prendere in analisi alcune macrotematiche per paragonare il modo in cui evolvono nel corso della serie.
La violenza in Metal Gear Solid
Tenendo il tema genericamente sul campo della violenza, ossia dei toni usati per rappresentarla, non ci sono dubbi che Metal Gear Solid abbia da sempre proposto contenuti di una certa crudezza. Se, però, nel gioco originale ci si limitava ad alcune scene che dovevano avere un effetto spaventosamente forte, con il passare degli anni la cosa è andata a rinforzarsi fino a raggiungere, in Metal Gear Solid V, livelli di realismo che sfiorano il raccapricciante e che si legano volutamente ai toni disperati, violenti, maturi e senza speranza che coinvolgono le vicende e i personaggi del gioco stesso.
A Shadow Moses, il Ninja fa strage delle sentinelle nemiche e ci ritroviamo in un disturbante corridoio disseminato di cadaveri. A Shadow Moses, Meryl Silverburgh viene martoriata in modo crudele dalle fucilate di Sniper Wolf che la usa come esca, in una scena che cita apertamente una sequenza simile in Full Metal Jacket. In Metal Gear Solid, Vulcan Raven viene divorato vivo dai corvi, quando la regia stacca per nasconderci quest’immagine. La stessa regia che indugia, però, sul corpo agonizzante di Sniper Wolf, sul sangue sul suo petto, staccando però con delicatezza nel momento del colpo alla fronte che la finisce. In Metal Gear Solid, Gray Fox viene calpestato dal Metal Gear REX che infierisce sul suo cadavere, trascinandolo sotto il suo piede: sono tutte sequenze di grande crudezza, realizzate ovviamente con le possibilità tecniche dell’epoca, che hanno tutte un significato forte all’interno del quadro di condanna della violenza attuato dal comparto narrativo della saga. Vedere questi personaggi deformati, distrutti dalla violenza, costretti ad averci a che fare, dà una precisa idea di che cosa significhi questa parola. L’agonia di Sniper Wolf è quel momento in cui ci siamo resi conto che vendicarci di quello che aveva fatto a Meryl ci ha dato solo una cosa: un’altra persona uccisa. Nessuna soddisfazione. Anzi, abbiamo pianto. Ti mostro da vicino quello che hai fatto, perché devi essere consapevole che lo hai fatto tu.
In Metal Gear Solid 2, la generica violenza è trattata in modo abbastanza cinematografico: i personaggi sparano, si feriscono, si attaccano, cadono. La scena della morte di Gurlukovich è diretta e cinematografica, come lo è quella di Scott Dolph, nel Tanker Discovery. A rimanere particolarmente impresse sono però soprattutto quelle del Plant: la prima è la morte di Emma Emmerich. Colpita off-screen, con la scena che non è girata nel dettaglio, Emma si accascia dopo pochi passi, quando la abbiamo liberata da Vamp, i suoi vestiti che si macchiano di sangue. È quasi un modo soft e beffardo di dirci che non ce l’abbiamo fatto. Non c’è uno spargimento di sangue, non c’è un indugiare sulla pozza di sangue che si allarga: Emma crolla e Raiden cerca di soccorrerla. Il resto è l’agonia tra le braccia di suo fratello.
Hanno un taglio molto più brutale le morti di Fortune e Olga Gurlukovich: la prima donna viene colpita in scena e muore poco dopo, la seconda è protagonista di una delle scene più cattive di Sons of Liberty, quando Solidus prima la immobilizza e poi le spara in fronte. È una morte che grida ingiustizia da ogni frame: Olga non può reagire né offendere, non può fare niente. Ma Solidus la uccide lo stesso.
La morte di Solidus stesso è, invece, più sottile: senza ferite, senza essere martoriato, l’ex presidente Sears si accascia senza vita in modo quasi rispettoso del suo personaggio. Legittimo dire che, in buona sostanza, Metal Gear Solid mostrasse scene più brutali del suo sequel, solo con una grafica meno realistica.
Diverso il discorso per Metal Gear Solid 3. Il gioco ambientato durante la Guerra Fredda tratta la violenza con una maturità consentita sia da una diversa maturità del medium, sia dalla crudezza del contesto storico. Mentre parleremo a breve dell’immagine della tortura nella saga, mi vengono in mente il ferimento di Eva che finisce infilzata contro un ramo sul finale del gioco. Mi viene in mente la morte del povero Granin, martoriato da Volgin. Mi viene in mente la brutale “morte” del colonnello Volgin, con le sue munizioni che gli esplodono addosso. Mi viene in mente però anche la morte rispettosa di The Boss. Quando premiamo il grilletto, non possiamo vedere il suo corpo prendere il colpo. C’è lo stacco che ci mostra il prato di fiori che cambia colore, a dirci cosa abbiamo fatto. Lei che ha smesso di respirare. Non c’è un indugiare, non ce n’è bisogno: sappiamo che abbiamo premuto il grilletto e stiamo già abbastanza male così.
Metal Gear Solid 4 fa le cose a modo suo. Il tema della violenza è brutale quando ci parla dei campi di battaglia: Screaming Mantis passa le sue vittime con i suoi tentacoli da parte a parte. Quando Liquid Ocelot stermina le truppe USA sul fiume Volta nell’Atto 3, la morte è ovunque è l’approccio è estremamente cinematografico, indugia sul dettaglio, sulla caduta, sull’esplosione, perfino sui cadaveri che galleggiano, ma senza diventare morboso. Guns of the Patriots tende a non cercare la corsa all’orrore, nemmeno quando Snake finisce quell’atto 3 con un coltello piantato nella spalla.
Quando, nell’Atto 4, Raiden decide di mozzarsi un braccio per aiutare Snake, la scena mostra la sequenza per qualche istante, poi abbiamo lo stacco sulla Haven. Non si indugia sull’atto violento in sé, si indugia di più, ad esempio, sui suoi effetti: Snake ha il volto intriso di sangue quando la Haven sta per investirlo. Raiden sta sanguinando, dopo lo scontro con Vamp nell’Atto 2. Vamp agonizza dopo lo scontro con Raiden nell’atto 4. Quando, nell’atto 5, Meryl e Johnny vengono tirati già da una raffica delle FROGs, prima dello scontro con Screaming Mantis, non c’è nessuno slow-motion, non ci mostrano da vicino il fatto. Li vediamo semplicemente crollare.
È una cifra stilistica che continua nella sequenza successiva, quando Snake aiuta a rialzarsi e continuare a combattere una Meryl che ha un numero di ferite difficili pure da contare. Continua quando percorriamo il corridoio a microonde e vediamo Raiden, Meryl stessa e ancora Johnny prenderle mentre cercano di difendere il cammino di Snake verso la sala server. La violenza c’è: se non ci fosse, il mondo non avrebbe bisogno di noi, perché è una violenza imperante che è fuori controllo, nella sua illusione di controllo. Quello che non c’è, per pura ed elegante scelta di regia, è la morbosità.
Il che è esattamente il contrario di Metal Gear Solid V. Non ho dubbi di smentita quando affermo che parliamo dell’episodio in tre dimensioni più violento di tutto il pacchetto. Nel caso di Ground Zeroes e di The Phantom Pain, la regia col piano sequenza sì che è morbosa, in tutto e per tutto.
Nelle sevizie subite da Paz e Chico a Camp Omega, con i bulloni nelle caviglie del ragazzo. È morbosa nelle ferite che segnano i corpi dei bambini nella Casa del Diavolo in Africa. È morbosa perfino in ospedale a Cipro, quando il medico viene strangolato lentamente davanti ai nostri occhi senza che riesca a difendersi.
La violenza in MGSV è morbosa anche e soprattutto quando si tratta della sequenza finale di Ground Zeroes, quella in cui il piano sequenza agitato e quasi da chinetosi ci mostra le interiora della ragazza che saltano fuori dalla ferita, mentre non è stata nemmeno anestetizzata e mentre il medico tenta di intervenire per estrarre la bomba che le è stata impiantata. È morbosa quando Venom Snake e Kaz mutilano ripetutamente Skull Face. È morbosa quando dobbiamo uccidere uno per uno i Diamond Dogs infetti e ne vediamo alcuni ripararsi la testa, cercando la salvezza, mentre noi siamo venuti a prenderci la loro vita come il diavolo. L’animazione stessa è sincera e crudele: il soldato prende la botta in testa, ha una sorta di contraccolpo, poi si accascia, il sangue sotto di lui si allarga.
Metal Gear Solid V è il primo della serie a scegliere toni che porterebbero a distogliere lo sguardo. Ha una piena consapevolezza di sé e non vuole mai risparmiare niente al giocatore. Hai voluto giocare alla guerra e la guerra è questo: guarda cosa puoi generare. Guarda cos’hai generato. Come fai a stupirti che i personaggi che vivono tutto questo tutti i giorni siano diventati l’errore che sono?
La violenza in Metal Gear Solid: la tortura
C’è un tema ricorrente, all’interno della serie Solid, che è quello della tortura. Una delle più grandi sventure che la sempre condannata guerra porta con sé, messo in evidenza dalla saga, è proprio quello della tortura, degli interrogatori, dell’infierire con lo scopo — addirittura non sempre — di ottenerne in cambio qualcosa.
Nel primo Metal Gear Solid ci sono molteplici riferimenti alla tortura e anche una messa in scena. Il giocatore, nei panni di Snake, viene torturato in prima persona egli stesso, costretto all’elettroshock, quando Ocelot gli intima di arrendersi per non morire, ma se lo farà allora lui ucciderà Meryl. Resistendo, il giocatore rompe la quarta parete: Naomi gli consiglia di poggiarsi il controller sul braccio per massaggiarglielo, per premiarlo per ciò che sta sopportando.
La rappresentazione grafica della tortura è sicuramente brutale, per i tempi in cui è uscito il gioco: Snake è sottoposto impotentemente a questo supplizio e non può fare niente per sottrarsi, fino a quando non arrivano degli aiuti esterni.
Nello stesso gioco, la tematica è accennata anche da Meryl Silverburgh che, quando ritrovata da Snake alla fine delle vicende, rivela di essere stata sottoposta a interrogatori non meglio precisati — né nelle meccaniche, né negli scopi.
La rappresentazione della tortura torna anche in Metal Gear Solid 2. Qui la scena è mostrata interamente in soggettiva, quando Raiden viene letteralmente preso per il collo e quasi soffocato da Solidus, che costringe il giocatore a fare del suo meglio per provare a resistere. La rappresentazione è quasi sottointesa: sappiamo cosa sta succedendo, lo vediamo con gli occhi di Raiden, ma il gesto è “non visibile su schermo”. Sentiamo il tentacolo stringersi intorno a noi, ma non lo vediamo mentre succede.
Questo tipo di rappresentazione è estremamente più maturo in Metal Gear Solid 3: quando Naked Snake viene catturato da Volgin, la sequenza di tortura a cui viene sottoposto è particolarmente brutale e non ci risparmia niente. Non ci risparmia la busta in testa, non ci risparmia le ustioni generate dalla corrente elettrica, non ci risparmia il fatto che il futuro soldato leggendario sia umano e per questo la sua vescica ceda.
Non ci risparmia nemmeno la colluttazione che lo porterà a farsi cavare l’occhio destro — che diventerà poi simbolo di Big Boss, l’eroe e antieroe guercio delle vicende. Forte anche di una regia molto ricerca, Snake Eater rappresenta già un salto in avanti siderale, a livello di realismo, rispetto al pur sincero Metal Gear Solid: la sequenza di tortura rappresentata si occupa dei dettagli e fa sentire il peso di quello che sta succedendo.
Metal Gear Solid: Peace Walker tentava un approccio simile in una sequenza in cui Big Boss veniva interrogato da Strangelove attraverso l’elettroshock ma, soprattutto, è Metal Gear Solid V a cambiare le carte in tavola. La rappresentazione della tortura nel capitolo più esplicito della serie è brutale. Quasi orripilante, per la sua sincerità.
Le sevizie che hanno firmato i corpi dei detenuti di Camp Omega — un richiamo nemmeno troppo velato a Guantanamo — il waterboarding e l’elettroshock che vengono eseguiti costantemente alla Mother Base: il tema della tortura è sfacciato e brutale, soprattutto quando la vediamo venire avere effetti, con un comparto tecnico così realistico, sui personaggi che conoscevamo. Il gioco non ci risparmia di vedere in che modo Huey stia soffrendo. Sappiamo che non vorremmo vedere Quiet in questa situazione. Su Paz, il discorso è invece molto più complesso e ne parleremo tra un attimo.
La violenza sessuale in Metal Gear Solid
Oltre alla tortura già approfondita, c’è un altro tipo di supplizio che, purtroppo realisticamente, trova ampio spazio all’interno dell’universo di Metal Gear Solid: sto parlando della tematica della violenza sessuale.
Si tratta di un’argomentazione che è spesso ritenuta taboo all’interno del videogioco, e non nel caso specifico in cui viene trattata con il solo intento di far parlare di sé (ricordate il gioco recentemente rimosso da Steam). Ai tempi, ad esempio, ci fu quasi un accenno al tema nel trailer Crossroads di Tomb Raider, con un vero e proprio sollevamento popolare contrario.
La parte brutta della storia è che, se Crystal Dynamics lo avesse incluso, non si sarebbe inventata niente. Per ovvi studi che ho compiuto per scrivere delle cose, non sono io a dovervi svelare quanto alta sia l’incidenza tra situazione di guerra/crisi terroristica/simili e il possibile concretizzarsi di uno stupro.
Metal Gear Solid affronta questa tematica da ben prima che le persone potessero anche solo lontanamente accorgersene. Ai tempi del primo gioco, quando dopo la battaglia in cima al REX, si ritrovava Meryl, la ragazza parlava di essere sottoposta a “torture e cose ancora peggiori”. L’argomento rimaneva nel non detto, ma c’era poi la precisazione del “davanti a quel dolore e a quella vergogna”, che esplicitava in modo soft ma doloroso quello che Meryl stava cercando di dire. Ho letto, ma purtroppo non capendo il giapponese non ne ho conferma, che nel prodotto originale in giapponese il riferimento fosse più esplicito, ma come detto riporto solo l’indiscrezione perché non sono ancora riuscita a misurarmi con il copione in lingua originale.
L’argomento, in tutta la sua scabrosità ma soprattutto nella sua sincerità, era lì sul piatto: la vittima è maggiorenne (vale la pena ricordare che inizialmente non lo era e fu Shinkawa a convincere Kojima a cambiare l’età di Meryl, anche se non specificamente in virtù di questa tematica), il che almeno ci toglie l’orrore aggiuntivo che avremmo provato se non lo fosse stata — anche se lo è a malapena. Era un ostaggio di un gruppo di terroristi composto da numerosi elementi, sicuramente non tutti controllabili e buona parte dei quali non esattamente raccomandabili o gradevoli. L’orrore aveva alte possibilità di concretizzarsi.
L’argomento torna di traverso, trattato in modo differente, in Metal Gear Solid 3, quando Eva nei panni di Tatyana ci dice con una diversa consapevolezza di subire le sevizie del colonnello Volgin, che si diverte a farle del male, per mantenere la sua copertura. Ci avviciniamo un po’ al “mito” delle spie donne della Guerra Fredda che erano disposte a utilizzare ogni arma a loro disposizione per riuscire nell’intento. È una violenza diversa da quella di cui ci parla il primo Metal Gear Solid in riferimento a un ostaggio ferito in mano a un gruppo di terroristi, ma è violenza allo stesso modo. La bellezza di Eva che è un’arma in più che le consente di ottenere fiducia, ma che si ritorce brutalmente contro di lei.
Si può dire, come nel caso della violenza generica, che il tema esploda letteralmente in Metal Gear Solid V. La serie passa dal non detto di Meryl a farci sentire su audiocassetta lo stupro di Paz. Rendersi conto che è la stessa ragazzina di Peace Walker e sentire quel nastro è una roba che toglie il sonno a chi si lascia prendere dai contesti narrativi. Metal Gear Solid V ci dice serenamente che la ragazza è stata seviziata durante gli interrogatori, che Skull Face ha costretto perfino il giovane Chico a prendervi parte. Ci fa sentire la disperazione della vittima e la sua resistenza, fino all’urlo atroce in cui la registrazione si interrompe. E siccome non era abbastanza disturbante, Ground Zeroes si chiude facendoci sapere che la violenza su Paz si è consumata anche con l’ordigno che le è stato impiantato nei genitali — dove Big Boss, che per fortuna non è Skull Face, non sarebbe mai e poi mai andato a cercarlo.
Tra il linguaggio usato per parlare del tema in Metal Gear Solid e quello usato per il medesimo argomento in Metal Gear Solid V c’è un abisso stilistico. Il primo gioco ci lascia alle nostre riflessioni senza il bisogno di infierire. Il quinto vuole farci sbattere di faccia sull’argomento, ci fa sedere in prima fila e ci dice in modo quasi crudele: ecco, è di questo che stiamo parlando. Lo sai che succede davvero e che va proprio così?
Rated M for Mature
Metal Gear Solid è uscito nel 1998. Metal Gear Solid V nel 2015. Da un episodio all’altro, mettendoli anche solo meramente di fianco e ignorando tutte le altre release, è possibile notare un abisso nel linguaggio. Quella che nel primo gioco era violenza, nel caso dell’ultimo è diventata ricerca maniacale del dettaglio da inquadrare. Il fatto di scegliere una regia con piano sequenza, oltretutto, porta vicinissimi all’azione, rendendo se possibile il tutto ancora più morboso.
Non c’è un meglio o un peggio, sono solo scelte stilistiche differenti, nate in epoche differenti, in un medium che è evoluto notevolmente e da un regista, Hideo Kojima, che in questo caso si è avvalso di fonti di ispirazione e influenze a loro volta differenti. Sono tante le cose a essere cambiate in Metal Gear Solid nel corso degli anni e il modo specifico di trattare l’argomento della violenza e, in particolare, di scegliere come mostrarlo è una delle più palesi. Significa che Kojima si è sentito più libero di mostrare immagini esplicite per la sua influenza e perché il medium è più maturo? Potrebbe essere. Ma non ci sono dubbi che anche le atmosfere completamente diverse tra un gioco e l’altro — il primo cammina verso un finale di speranza, il quinto verso l’autodistruzione dei due protagonisti — abbiano la loro profonda parte in questa scelta.