Videogiocare ci rende migliori. Lasciate che dicano che diventiamo violenti, che ci dissociamo, senza che sappiano distinguere il sano passatempo, l’hobby escapistico, dall’esagerazione. La realtà dei fatti è che videogiocare ci rende migliori. E che ha un impatto sulle persone che siamo perché è un medium capace di far passare i messaggi, le riflessioni e le tematiche come nessun altro riesce a fare.
La persona che parla in modo più affascinante di questo argomento è la game designer Jane McGonigal. Nel corso dei suoi progetti e nei suoi libri, l’autrice ha spiegato il suo punto di vista, secondo il quale il gioco è una spinta gentile che ci dà coraggio per tornare nel mondo reale.
Gli studi di McGonigal hanno evidenziato che, prima dei ventuno anni, i giocatori hanno già trascorso 10.000 ore a videogiocare. Si tratta di una soglia di ora che eguaglia quasi quella delle scuole dalla quinta elementare al diploma, ossia: i videogiocatori dedicano a giocare le ore che normalmente l’istruzione gli fa dedicare a imparare qualsiasi altra cosa. Stiamo diventando eccezionalmente bravi, ma bravi a fare cosa, con queste 10.000 ore di esercizio in età così giovane?
Se non succede qualcosa di drastico che possa invertire l’esodo che ne risulta, abbiamo imboccato una strada che ci porterà rapidamente a essere una società in cui una parte sostanziale della popolazione dedica le sue energie migliori a giocare, crea i suoi ricordi migliori negli ambienti di gioco e raccoglie i successi maggiori nei mondi dei giochi.
— Jane McGonigal, La realtà in gioco
Quello da lei evidenziato è un miglioramento che riguarda diversi aspetti e che, se riuscissimo a portare nella vita reale l’atteggiamento di gioco che abbiamo normalmente, potrebbe cambiare le cose: quando giochiamo, sentiamo un urgent optimism, ossia sentiamo che possiamo farcela. I giochi sono progettati in questo senso, non ci sono mai sfide impossibili e sono sempre al limite delle tue attuali capacità, ma c’è da dire che il gioco e il videogioco ti spingono a migliorarti. A ritentare se fallisci. A dirti che ce la puoi fare. Sensazioni che non ritroviamo, invece, negli impegni della vita reale.
Quando videogiochiamo, siamo socievoli. Siamo disposti a collaborare con le persone, anche quelle appena incontrate, per risolvere i nostri problemi. Siamo in grado di mettere insieme le nostre forze e i nostri talenti per trovare soluzioni alle quali altrimenti non saremmo giunti. E se avessimo lo stesso approccio anche nella vita reale?
Quando videogiochiamo, siamo forti di una produttività gioiosa, nello stesso senso: sappiamo che faticando nel gioco ci divertiamo, ci sentiamo positivi. Ci riposa, in qualche modo, più che abbandonarci semplicemente sul divano a rilassarci. Inoltre, i giochi ci fanno sentire il cosiddetto epic meaning: qualcosa di più grande, una missione da compiere, la possibilità di metterci a lavorare per fare la differenza.
I giocatori vogliono sapere: dove si trova, nel mondo reale, quel senso di essere davvero vivi, concentrati e impegnati in ogni momento? Dove si trova quel senso che si ha nel gioco di potere, di finalità eroica, di comunità? Dove stanno quelle scariche esaltanti che dà il raggiungimento creativo di un traguardo nel gioco?
– Jane McGonigal, La realtà in gioco
McGonigal racconta che lo storiografo Erodoto scrisse, ai suoi tempi, che la Lidia riuscì a salvarsi da una ventennale carestia convincendo il popolo a mangiare per un giorno e giocare per il successivo. In questo modo, concentrandosi sulle attività ludiche, il popolo non solo riuscì ad andare avanti, ma ebbe anche il coraggio di partire per cercare una nuova sistemazione. La storia ci ha rivelato che c’è un collegamento tra questi individui e i fondatori della civiltà etrusca, proprio come raccontato da McGonigal. Un episodio significativo, forse leggendario, che riassume il tema stesso: il gioco ci spinge a diventare migliori e compiere gesti sfruttando il nostro potenziale. E ci riporta nella vita con un approccio che altrimenti non avremmo avuto.
Nelle sue opere, come Superbetter e La Realtà in Gioco, Jane McGonigal definisce il gioco come quel mezzo che ci fa scoprire qualcosa in più di noi, che altrimenti non sapremmo. Il gioco ci dà fiducia, ci valorizza, al punto che le generazioni di giocatori si chiedono perché la vita reale non sia altrettanto appagante. Ci sono giochi, chiamati serious game o persusive game, a seconda delle inclinazioni e dello studio, che sono in grado di aver un forte impatto sulle persone e che, per questo motivo, dimostrano ulteriormente quanto il potenziale ludico sia in grado di tirare fuori da noi. In alcuni progetti della McGonigal, l’attività di gioco è riuscita a migliorare le condizioni delle persone affette da depressione. In altri, gli utenti hanno collaborato per arrivare a soluzioni ingegnose a problematiche proposte all’interno dell’ambiente ludico.
Secondo il designer e accademico Ian Bogost, il gioco è anche forte della retorica procedurale, ossia della sua capacità di affrontare tematiche, farle apprendere e consegnare riflessioni e messaggi, passo passo, in un modo che non è concesso a nessun altro tra i nostri media. L’interattività del gioco, la sua straordinaria capacità di immersione, ne fanno un mezzo di comunicazione che riesce a colpire in modo unico l’utente, perché lo coinvolge nei gesti che fa.
Si tratta dell’arte della persuasione attraverso rappresentazioni fondate su regole e sull’interazione, piuttosto che sulla parola proferita, sulla scrittura, sulle immagini o sulle immagini in movimento. […] Voglio suggerire che i videogiochi, contrariamente ad alcune altre forme di persuasione computazionale, hanno poteri persuasivi unici. […] I videogiochi sono artefatti computazionali che hanno valore come artefatti computazionali.
– Ian Bogost, Persuasive Games
Così, mentre qualcuno si limita a dire che i videogiochi ci rovinano, la verità che emerge dai game studies è molto diversa: i videogiochi ci migliorano. Ci fanno sentire meglio quando ci giochiamo, ci fanno conoscere meglio le nostre inclinazioni e i nostri talenti, ci rendono più propositivi e più socievoli quando si tratta di collaborare, ci danno la fiducia di sapere che, impegnandoci ancora e ancora, potremo farcela. E, come detto da Bogost, ci fanno capire, affrontare e approfondire problematiche che altrimenti non avrebbero il medesimo impatto, se affrontate in un libro, un film, una serie TV.
E allora no, la questione, all’infuori della cerchia delle dipendenze che meritano un discorso a parte, non è come fare a tenerci di più nella realtà perché giocare è tempo perso. La questione, proprio come sta studiando McGonigal, è trovare il modo affinché anche il mondo reale riesca a renderci altrettanto propositivi e combattivi, altrettanto intenzionati a dare il meglio di noi stessi. Altrettanto sicuri che i nostri sforzi varranno sempre la pena.
Per approfondire l’argomento, raccomando:
- BOGOST Ian. Persuasive Games: The expressive power of videogames. Cambridge: The MIT Press, 2007.
- MCGONIGAL Jane. La realtà in gioco. Apogeo, 2013.
- MCGONIGAL Jane. SuperBetter. Penguin Press, 2015.